"Kas'iyyan." La voce di Mariya Alexandreevna aveva un tono ammonitore. Gli occhi di lei, chiari come il ghiaccio e non meno gelidi, lo scrutavano con la medesima severità da un intrico di rughe profonde e fitte, come ragni al centro della tela. Lui odiava i ricordi, eppure non sapeva respingerli. L'acqua si freddava nel samovar, i pomeriggi diventavano crepuscoli, le notti facevano spazio all'alba: mentre il tempo fuori di lui correva avanti, dentro il suo animo si srotolava a ritroso, e il vecchio non era in grado di opporre resistenza alcuna.
La prima volta era successo poco dopo la fine della guerra. Ne era uscito vivo, anzitutto, ma anche pluridecorato, acclamato: davanti a lui si prospettava una brillante carriera in quella che era stata la Krasnaja Armija, tanto che qualcuno, tra il serio e il faceto, già lo chiamava polkovnek, colonnello. C'erano delle truppe da passare in rassegna, quel giorno: si preparava una parata per festeggiare la vittoria. Un ragazzetto nella prima fila reggeva come tutti il fucile a spall'arm, guardando marziale avanti a sè, rigido, tremando leggermente per rimanere immobile nel primo caldo di maggio nonostante avesse una mosca posata sulla rima dell'occhio.
Improvvisamente la luce si fece obliqua, radente; l'aria era più fresca, e odorosa di bosco fradicio. Kas'iyyan sentiva l'umidità farsi strada negli stivali: doveva esserci uno strappo nella suola. Il calcio di un fucile scostò un cespuglio di felci davanti a lui, levando in volo un nugolo di mosche e rivelando un ragazzino disteso a terra: da un foro sullo zigomo colava un rivolo sottile di sangue denso, un insetto ancora posato sull'occhio sinistro aperto, fisso nel vuoto. Il ragazzino che giaceva nel sottobosco umido era poco più vecchio di lui, e gli somigliava nella curva della fronte, nel profilo del naso, nello zigomo ferito e negli occhi vitrei, quasi come una goccia d'acqua. Aveva portato i suoi vestiti smessi, rubato la sua parte di coperte durante il sonno, lo aveva odiato per le attenzioni che riceveva e amato sconfinatamente per tutto il resto. Una mano grande e ruvida, mano da uomo di fatica, fece sentire il suo enorme peso sulla spalla sinistra di Kas'iyyan, arrivando a toccare con le dita il punto in cui poteva sentire il suo cuore battere con una calma innaturale. La mano del gigante parlò con voce profonda e atona, in una lingua che non sentiva da tanti anni: "Lo chiameremo un incidente e non ne parleremo mai più".
Si riebbe nell'astanteria, con il cuore che batteva come le ali di un uccello impazzito e il puzzo dell'ammoniaca nel naso. Lo avevano spostato di peso, così gli dissero, quasi da sotto i cingoli di un T-34, della cui avanzata non si era per nulla accorto. Lo visitarono tutti i medici migliori, stilarono una diagnosi che non gli mostrarono, mentre tutto quello che gli fu consegnato fu un plico di dimissioni ad effetto immediato. Da allora innanzi, per Kas'iyyan tornarono ad esserci solo il bosco e l'isba e i ricordi a portarlo via, ma tutto il suo passato gli era inviso e doloroso come percorrere a piedi nudi un sentiero di carboni ardenti.
"Kas'iyyan." Maryia Alexandreevna scosse leggermente la sedia, con impazienza "non sono venuta qui oggi per caso. Non sono qui per un tè coi blinis o per far prendere aria alla tua icona, che Iddio abbia pietà di te," lo incalzò "sono qui perchè è oggi che torneranno." "La bambina, Maša...." "Lei sarà con me, Kas'iyan, verrà per il tè dopo la scuola. Se sarà necessario, avrà un piatto per la cena, e Dio non voglia, un letto per dormire.".
Il vecchio guardava nel vuoto, confuso. Non sapeva cosa fare. Non riusciva a muoversi. Nelle sue orecchie un proiettile tintinnava ostinato contro una placca metallica sul muro. Lì dove si trovava, una pioggia di proiettili sibilava nell'aria e si conficcava ovunque, e l'aria risuonava di una babele di voci. Il sole, fuori, faceva il suo giro.
Si riscosse a fatica, accaldato, sudato e sorpreso che la sua sedia non fosse all'ombra. A passi incerti e traballanti raggiunse una mensola vicino al pech e ne trasse una bottiglia, mentre con la destra malferma cercava freneticamente la tazza. La urtò senza nemmeno vederla, e quella cadde a terra, andando in pezzi: il vecchio urlò un'imprecazione blasfema, stappò la bottiglia, ne bevve un lungo sorso e si segnò tre volte. Poi, cadde a sedere, incapace perfino di pensare.
La porta era aperta, e non ci fu bisogno di bussare. La bottiglia era rotolata a terra, vuota, accanto ai frammenti della tazza. Kas'iyan sedeva scompostamente su uno sgabello in penombra, aggrappato al tavolo con disperazione di naufrago, scarmigliato e scosso di tanto in tanto da un singhiozzo profondo.
L'ombra che stava ritagliata contro la luce del tramonto tra gli stipiti vuoti parlò con la voce fresca e arrogante di chi ha l'abitudine ad essere obbedito: "Vecchio, sei ubriaco. Troppo ubriaco. E troppo vecchio.".
Kas'iyan diede un respiro profondo. Tremava di indignazione, di rabbia, di umiliazione, ma si alzò in piedi, diede un calcio allo sgabello, raccolse i capelli, lunghi alla nuca, in un laccio di cuoio e guardò fisso l'ombra scura. "Questo lo vedremo," disse "questo lo vedremo.".
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