domenica 24 febbraio 2013

La città era immersa nel buio. La notte era calata d'improvviso come se sentisse la fretta di ricoprire d'ombra i vicoli e le piazze, riconsegnando al vero signore della città i luoghi che gli erano sempre appartenuti: il Mistero riprendeva dunque il suo dominio sulle strade silenziose a quell'ora, li dove al mattino sbraitavano i mercanti di ogni provincia montuosa, dove girovagavano soldati stanchi, madri accompagnate dai figli, contadini giunti dall'altra sponda del mare sulle barche, e la più varia umanità tutta riversatasi nella capitale più importante del mondo conosciuto.  La notte però si era fatta più cauta nel raggiungere l'alto muro del palazzo, bianchissimo, come se la marea di ombre per l'antico principio metafisico del male che teme il bene, avesse paura di lambire i confini   del tempio del sapere e della cultura, la residenza del Califfo .
Il muro circondava con un cerchio perfetto le cinque cuspidi d'oro e di lapislazzuli che sormontavano altrettanti enormi torrioni,dove si diceva fosse custodito il potere antico della città,sepolto da tempo immemore molti anni prima della sua fondazione poco lontano da dove sorgeva i l palazzo,molti anni prima del sommo profeta e del profeta galileo crocefisso,prima della venuta dei discendenti dei re dei franchi cui venne donato Abul Abbas il terribile,prima di Aristotele e delle grandi guerre combattute al dilà del mare, quando i Grandi Re della terra dimoravano in quei luoghi senza che anima viva ignorasse chi fossero, per quante leghe potesse percorrer un uomo a dorso di camello per due vite intere. Dar-al Salam, la Città Circolare era giovane, ma possedeva una storia antica.

Ma il Mistero non aveva padroni.

I servi corsero lungo le vie della città illuminata alla luce delle lampade con quanta più fretta avessero mai avuto. Se il profeta li avesse visti così zelanti li avrebbe segnalati all'occhio caritatevole dell'Altissimo; ma se li avesse visti il Califfo, avrebbe semplicemente detto che non correvano abbastanza. Lo scalpiccio risuonò nel sontuoso pavimento di marmo prospiciente al portale scolpito nel legno con figure di gazzelle e di leoni, di guerrieri che cacciavano orde di barbari sanguinari, immagini di città lontane e di cieli stellati, che per ogni riquadro che componeva l'immensa porta lignea cambiavano, mostrando costellazioni che nessuno aveva mai visto prima. 
Ma che di sicuro, il signore di quella casa aveva visto coi suoi occhi, aveva udito spiegare e cantare, aveva studiato e ammirato calcolandone i lunghi e musicali viaggi che gli astri compivano per andare a riposare poi  nella gloria di Al-Muhaymîn lode sia al suo nome.
I servi-cinque in tutto-bussarono alle porte della casa che a quell'ora di notte pareva immersa nel silenzio e nel sonno; ma era solo un apparenza: Abū Yūsuf Yaʿqūb ibn Isḥāq al-Kindī a quell'ora si levava. Immerso nei suoi calcoli e nei suoi assurdi ed incomprensibili disegni, era solito ritirarsi in una stanza solitaria che si era fatto costruire appositamente in aggiunta alla casa che aveva ereditato da parte di sua madre. Lassù nel silenzio di una città dormiente il filosofo studiava assiduamente pergamene antiche e altre che in futuro saranno scritte, chino sui testi e sui suoi esperimenti come un pollo sul becchime-diceva la sua nutrice. Se dal padre aveva ereditato i morbidi capelli chiari, il resto del suo aspetto non era di sicuro di quella bellezza tanto decantata dai poeti. 
Tarchiato- e questo perchè cibandosi di cibi lontani a scopo di esperimento si diceva che la curiosità avesse ceduto il passo alla golosia-radi capelli sulla testa e la barba sempre incolta, intorno alla luce della terza stella sollevò lo sguardo e trasse le sue mani paffute dal calamo perchè i servi del Califfo Abū Jaʿfar ʿAbd Allāh al-Maʾmūn dovevano condurlo al palazzo.
Poche parole dette in silenzio e al-Kindi fu costretto a gettarsi sulle spalle un manto spesso di lana e raggiungere in silenzio il suo Califfo e benefattore. Figlio del Magnifico Rashid,al Ma'mun accolse lo studioso in piedi,in una stanza privata che anni prima il padre aveva ricavato deviando un ansa del fiume Dijila e lasciando che la pietra ne fosse levigata al naturale prima di consentire agli operai di approntare le necessarie modifiche. La stanza si trovava assai prima dell'ingresso principale al meraviglioso palazzo che si diceva avesse stanze intere ricoperte interamente di  gioielli, e questo stupì assai al Kindi:era segno che il califfo aveva premura di incontrarlo a quell'ora nel cuore della notte. 
Senza dire una parola il califfo lo guardò fisso negli occhi,si alzo dallo scranno intarsiato in cui era assiso e gli consegnò personalmente uno straccio lercio in tela, che odorava di sudore e sporcizia,ma che a giudicare dal fatto che il califfo in persona lo tenesse tra le mani doveva esser di sicuro qualcosa di prezioso. Al Kindi lo prese tra le mani cercando di capire se mai vi fosse involto un qualche oggetto,ma lo straccio una volta portato alla luce di una candela si rivelò esser in realtà il supporto in cui era scritto un messaggio, incomprensibile.

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Questo in lettere della vicina civiltà di occidente era scritto con un pigmento rosso sulla tela sgualcita, e senza che fossero necessarie spiegazioni al Kindi era li per un motivo: capire cosa mai quella serie di lettere volesse dire. La stanza si fece di improvviso piena di personaggi dal volto coperto, che in realtà erano presenti fin dall'inizio, solo che al Kindi non se ne  era minimamente accorto. Gli uomini lo fissavano dallo spiraglio degli occhi e lo studioso capì, che quelle guardie del corpo del Califfo non lo avrebbero lascito uscire di li senza che si potesse giungere ad una risposta.
- Ecco che tutti quei libri sui simboli che hai letto ti sono serviti a qualcosa! disse il Califfo rompendo il silenzio assordante. 
-Vedi di fare presto,non abbiamo molto tempo.
Al kindi,maledisse la sua fama,se avesse potuto si sarebbe strappato tutti i peli della barba, lui, che aveva riscoperto l'antica arte di ricoprire d'oro i metalli usando solo il succo di limone era ora bloccato nel cuore della notte e il Califfo aspettava una risposta entro il mattino. Al Ma'mun uscì dalla stanza e al Kindi neppure se ne accorse,concentrato come si trovava. Le guardie uscirono tutte tranne tre, enormi e scure nelle loro armature dorate. Il filosofo iniziò a guardarle con attenzione e con orrore si accorse che quegli uomini avevano paura:le guardie erano li per proteggerlo da qualcosa,non per fare placidamente il loro turno di guardia. Si concentrò sulla scritta. Gli bastarono pochi minuti per mettere insieme le più elementari nozioni che aveva appreso per decifrare la frase. Ma il significato si fece oscuro. Due ore prima dell'alba mandò un uomo a prender da casa sua un libro. Poi ne inviò un altro che tornò con un sacchetto. Poi un terzo con tre rotoli di pergamena nuova e materiale per scrivere.
All'alba al Ma'mum  entrò e trovo al Kindi addormentato riverso sulle pergamene. 

-Mio Signore e mia Salvezza- prese dunque a dire- ho lavorato tutta una notte, e meno male che il mio carissimo compagno di studi mi ha messo a parte di tutta quella nuova scienza che è il disporre...
-Basta perder tempo! Gridò spazientito al Ma'mun. E li in quell'attimo gli occhi sereni che Il grande Harun al Rashid aveva regalato ai figli si tramutarono in fiamme.
-Voglio sapere che c'è scritto nel messaggio!
- Mio signore, io...mio Signore voi state per esser avvelenato. 
Nella sala si fece un grande vociare, le guardie stesse si guardarono impaurite e poi tutto sprofondò in un grande silenzio.
- Spiegati meglio e senza confusione allora, o alla Casa della Sapienza il tuo nome sarà per sempre cancellato! Disse il Califfo.
-Mio Signore,la lingua è quella degli antichi popoli al dilà del mare, ma non è raffinata come quella che ho sempre studiato. 
-Sciagurato, il Potentissimo Al Kahliq possa confondere i tuoi pensieri, che dici! Conosco il latino e non vi è traccia  di questo!
-Sire anche a me all'inizio pareva tale, anzi più simile a quell'idioma di  popoli oscuri che abitano oceani di ghiacci lontano tante vite di cammello da qui, ma il messaggio è semplicemente cifrato con un codice antico, inventato da uno degli antichi re, Giulio Cesare era il suo nome. Ogni lettera è sostituita da quella tre volte successiva nel loro sistema di segni e il messaggio originale è questo mio sire.
Al kindi prese una pergamena e scrisse così poche righe: 

AB DUO AD QUATOUR
IN DUO DIVIDE. 

SIT UNUM ET SEPTEM 
OPTA DUO ET QUATUOR AEQUALES.

Il Califfo rimase sorpreso ed il capo delle guardie del corpo si lasciò sfuggire un moto di meraviglia. Tuttavia il significato continuava a rimanere oscuro. 
-A questo punto mio signore non riuscivo a capire più nulla. Avevo decifrato il codice ma non sapevo cosa volesse significare. RIcordo che una volta la madre della sorella minore di mio padre, uscendo dalla piazza che poi porta alla seconda via del mercato,incontrando...
-Va avanti o possano tutti i Jiin trascinarti nel fuoco!!Berciò il califfo.
Ma certo sire scusate sire. La prima frase è la chiave per disporre le lettere, chi ha composto il messaggio non l'ha solo cifrato, ma ha pensato che la soluzione dovesse essere un enigma da disegnarsi e poi capirsi. Dopo averlo disegnato correttamente non rimane che risolverlo ma le due cose vanno insieme, capite sire?
Il Califfo sguainò la spada e andò verso  al Kindi che si inginocchiò in segno di protezione implorando di esser lasciato vivo per continuare la spiegazione.
-Spiegati per Allah! Gridò il califfo fuori di se.
-Sire il primo è un verso di Vitruvio, l'architetto romano, che dice come disporre i mattoni in un muro. Al kindi estrasse dal sacchetto nove dadi in legno grandi come una grossa noce. 
-Vitruvio dice di alzare i muri ponendo una prima fila di mattoni, e al disopra una seconda che inizi con un mattone tagliato a metà.
Al Kindi prese due dadi e li affiancò,sopra di essi in equilibrio ne mise tre e sopra ancora in equilibrio altri quattro. Il risultato era una sorta di forma triangolare con apice rivolto in basso costituito da due dadi, e base rivolta verso l'alto costituita a sua volta dai quattro dadi posti al disopra dei tre. 
 Il califfo ascoltava attento. 
-Il secondo verso sire è stato il più difficile perchè è la vera chiave dell'enigma. Dice in sostanza siano uguali l'uno e il sette e il due e il quattro. Ma uguali cosa? Uguali i figli di una chioccia? Uguali i nomi dei distretti della città? Oppure le lettere del messaggio che si voleva comunicare, e che è stato nascosto in questo modo ingegnoso? Ho pensato così:dovevamo dunque trovare un messaggio che contenesse due coppie di lettere uguali, la prima coppia al primo e settimo posto. La seconda al secondo e al quarto.

-Uguali le lettere in un messaggio,certo ma quali lettere? Anche provando con tutte le combinazioni è impossibile comprendere che si volesse dire. Ho passato l'intera notte su questo e solo alla fine ho capito. Le lettere erano le prime di ogni verso, la S e la O, che si ripetevano in posizione 1 e 7; 2 e 4.
- Provate a guardare la costruzione di dadi, non vi ricorda un qualche oggetto?
-Affatto!Non capisco! Disse disperato il califfo, confuso dall'immensa spiegazione.
-Sire se disponiamo ogni lettera che abbiamo al posto di ogni dado otteniamo questo:

               S  O  _  O

       _  _  S

       _  _


-Adesso Sire vi è più chiaro?
-Mi pare che le lettere siano messe dentro una tazza. Disse il Califfo aggrottando le sopracciglia.
-Esatto Maestà Eminentissima. E guardando questa forma le lettere mancanti possono essere ben immaginate. Una regina dell'antichità fu avvelenata dal marito per non doverle far subire un ignominosa umiliazione. Il suo nome era Sofonisba, e fu avvelenata con il veleno mescolato a una bevanda in una tazza. 

martedì 3 luglio 2012


C'erano voci fuori dalla stanza. Le cortine pesanti del baldacchino erano tirate, filtrando la luce in lame polverose e ovattando i rumori, tramutando la vita che scorreva fuori in un tramestio confuso. Le voci non furono la prima cosa che avvertì il conte, nè il capo che pulsava ritmico dietro la tempia destra -doveva essere caduto, pensò, aver picchiato la testa contro qualcosa, accidentalmente, ma cosa, cosa...- quanto un'insistente fastidio, un morso profondo e minuscolo dove la camicia da notte si apriva disordinatamente sulla spalla. Pulci. Le solite pulci. Da quanto tempo giacesse lì, non avrebbe saputo dirlo. Un'ora, forse, pensò, dal momento che non si sentiva affatto riposato, oppure molto di più, credette, quando s'accorse che i muscoli impiegarono più del normale ad obbedire alla sua volontà di alzarsi. Poi la vescica implorò d'essere svuotata, e tentò di rotolare a sinistra, di scostare le tende di mussola, poi di velluto, raggiungere l'orinale. Si smarrì nei tessuti, sembravano tanti, troppi, per ogni velo scostato dieci nuovi comparivano. Quando finalmente riuscì nell'impresa, le mani incontrarono un muro. Incredulo, ne seguì tentoni la superficie lunga e fredda, e fu preso da un panico folle, disorientato. Cercò di chiamare ad urla la servitù, ma dalla sua gola non uscì un suono.
Il vociare si fece più vicino, la cortina si spalancò e il conte serrò gli occhi, convinto che la luce l'avrebbe ferito, ma la stanza fuori era tenuta in una condizione di compassionevole penombra. Dove poco prima stava il muro, riconobbe stagliarsi la figura una delle servette di camera, che senza fiatare lasciò cadere il lembo del baldacchino soffocando una parola, un grido, un'imprecazione premendo le mani sulle labbra, passi di corsa e una porta che si chiudeva con rumore pesante.
Il conte si allungò disperato per trattenerla, e oltre i velluti e le mussole la sua mano incontrò ancora il muro, solido, reale, terribile. Liberò la vescica senza avvedersene, ma fu un momento. Allucinazioni, si disse. Mostri dell'immaginazione, nient'altro. Nulla di reale. Si girò rotolando dall'altro lato, impacciato dalle lenzuola e dalla camicia bagnata. Grugnì la sua fatica nel mettersi a sedere, cercò il vuoto sul bordo del letto con i piedi e lo incontrò. Si spinse oltre, sempre più oltre, finchè i piedi incontrarono il pavimento in una lama di chiarore, all'incontro delle cortine, e lo tastarono con dita sospettose, poi con tutta la pianta. Le allucinazioni erano finite. Sollevato, si sporse col capo fuori dal baldacchino e ritrovò l'orientamento, la sua stanza da letto, lo scrittoio, il camino sul fondo.
Allungò una mano verso il comodino, cercando la campanella per chiamare la servitù, ma non gli riuscì d'afferrarla ed essa cadde, tintinnando sul pavimento. La porta si spalancò ed entrò la luce forte e chiara di certe mattine limpide di primavera, con un refolo d'aria fresca. Che non fu sufficiente a portargli sollievo quando, nel chiarore, vide che ad entrambe le mani mancavano tutte e dieci le dita. Volle urlare, ma non emise un suono. Si dimenò, smaniò, ma l'allucinazione non passava. Non trovava le proprie dita, non trovava la propria voce. Gente della servitù, che riconobbe per gli abiti più che per le fattezze, cercarono di trattenerlo, di calmarlo. Ebbero ragione di lui solo quando gli porsero da bere, e lui bevve, avidamente.
Ma nemmeno l'acqua lungo la gola riarsa gli restituì la parola. Nessuna allucinazione. Era senza dita, ed era muto.

Vennero in molti, visi estranei sotto le parrucche incipriate. Lo condussero alla poltrona davanti alla specchiera, ma gli furono attorno in così gran numero che non gli riuscì di vedere il proprio riflesso.
Gli strigliarono il capo con una spazzola che voleva essere morbida, gli cambiarono la camicia e lo frizionarono con panni profumati di muschio, lo aiutarono a indossare le calze e poi le brache, conducendo i moncherini a farsi strada nel gilè e nella marsina. Gli calzarono una parrucca nuova -dov'era la sua?- e gli incollarono un neo in taffetà sulla fronte, "il maestoso". Poi si dileguarono, silenziosi com'erano venuti, lasciandolo lì seduto, senza nemmeno un paio di babbucce da camera ai piedi, a guardare nel vetro piombato la faccia stravolta di un uomo che gli parve di non conoscere.
Lo specchio veneziano lo ricordava, già antico quando gli fu porto come dono di nozze da un parente, forse un marchese. Era proprio lì, con tutte le incrinature del tempo e la doratura della pesante cornice che in un ricciolo iniziava a staccarsi in fiocchi, esattamente dove doveva essere. O forse no. Lo scrittoio, pensò improvvisamente, lo scrittoio è troppo distante. Uno o due piedi, forse. Improvvisamente gli parve tutto grottescamente fuori posto. Si riprese dallo stupore e si alzò in piedi, brancolando incerto verso la scrivania, avvertendo un bizzarro senso di vertigine quando gli necessitarono gli ultimi due passi per raggiungere il tavolo. Erano passi di troppo. E la superficie del tavolo, sempre ingombra di carte, missive e documenti, che seppellivano il tocchetto di ceralacca sciolto a metà e che non gli riusciva mai di trovare, gli sembrava estranea, così terribilmente nuda. C'era penna e calamaio, e una pila di fogli scorniciati di fresco, ma quando allungò una mano per afferrarli e l'altra per scostare la sedia, realizzò che non gli sarebbe mai stato possibile vergare nemmeno una cifra. Le parole che non volevano uscire dalla strozza e le dita mozze, doppiamente muto. Alzò il capo inspirando profondamente, cercando di dominare il terrore. La sua vista incontrò troppo presto il muro di fondo, un muro bianco, liscio. Ne sentì il freddo sul palmo, realizzando che, su uno dei due lati, il suo letto vi poggiava contro.
Alle sue spalle si aprì una porta, e si voltò di scatto, stravolto.
"Papa, mon papa, vi sta scivolando la parrucca. Ecco, lasciate che l'aggiusti." Sembrava Françoise. Le assomigliava, dopotutto, ma non si era mai presa tanta confidenza nei suoi confronti. Non l'aveva nemmeno mai preso sottobraccio, come ora stava facendo, mentre lo conduceva a sedere sul canapè sotto la finestra. Forse era tenerezza per la sua condizione, una cura per un vecchio padre malato.
"Da quando maman è mancata, quanto dev'essere stato difficile per voi." Mancata? Georgette. Mancata mentre Jacques era in guerra. Jacques però non era più nelle Americhe. Era morto. Per colpa di un italiano pazzo, o cronicamente ubriaco, che sedeva nella sua casa e lo oltraggiava, sì, lo oltraggiava...ma come? come? "Avete dormito a lungo, questa volta, papa, eravamo tutti terribilmente preoccupati." Tutti... " Io ero preoccupata che non vedeste mai il vostro primo nipote". Abbassò gli occhi arrossendo. Lui avvampò per la vergogna e il disonore. Des Italiennes. Buoni solo a portare guai. Poi vide l'anello, grande, ingombrante, all'anulare di lei, e lo fissò stupefatto. 
Françoise se ne avvide, e sembrò seccata. "Papa. Ancora non ricordate? Sono sposata, ora. Ho un buon marito, è gentile, si occupa di me anche se è lontano. Un commilitone di Jacques.".
Il conte ne fu immensamente sollevato, e sospirò il suo sollievo. " Ha fatto una piccola fortuna nelle Americhe del Nord, oltre i grandi laghi. Dice che quando il bambino sarà abbastanza grande, mi porterà lì con sè, ma laggiù il clima non è adatto ad una donna... ecco, una donna nel mio stato". Arrossì ancora. Le buone maniere, l'etichetta, la pittura e la spinetta malamente strimpellata per anno, e la sua 
Françoise alla fine aveva accalappiato qualcuno. "Ti porterò un suo ritratto. E' talmente bello, vedessi, anche con quella cicatrice che gli attraversa il viso. Peccato per quella mano, un brutto incidente, ma è la sinistra e non la usa per scrivere, quasi una fortuna. Vedi, ti somiglia" Quelle parole gli fecero montare una nausea insopprimibile. La represse a fatica. Ricordò suo figlio, il giorno in cui partì per le Americhe, quando infilò l'anello di famiglia al mignolo, rigirandolo più e più volte. Aveva un'aria mogia, e insicura, come un bambino appena sgridato. Il conte si sentiva terribilmente colpevole, ma non ricordava per cosa. Il cinguettare della figlia lo riportò al canapè quando ormai aveva perso il filo della conversazione, ma quello che colse fu più che sufficiente: "Jacques verrà nel pomeriggio." La giovane scalpicciò via, senza voltarsi.
Jacques era morto. Un italiano era arrivato con una carrozza funebre e aveva parlato di incidenti, poi si era parlato di funerali, poi...poi... Jacques era morto. Morto. Si era strappato la parrucca per lui. Ecco dov'era finita, nel camino, bruciata. La bara era stata sul catafalco della chiesa, annegata in un mare di gigli che lottava per coprirne l'odore, i seminaristi avevano cantato. L'interramento vicino alla cappella di famiglia, sul retro della villa, che si vedeva in lontananza, oltre la finestra.


Sul retro. I suoi appartamenti davano sul lago in fronte alla villa, sullo scalone d'onore.
Iniziò a farsi chiaro, nella sua mente. Quella stanza, ricreata ad arte per sembrare la sua, che però non lo era. Era più piccola, più buia e più allungata, il letto poggiava contro il muro e lo scrittoio era troppo distante.
Non aveva scarpe per uscire, né dita, né voce. Non poteva andarsene o comunicare, neppure porre domande. Non conosceva data né stagione. E il suo defunto figlio sarebbe passato nel pomeriggio. Sudava freddo, con la parrucca Si guardò nel riflesso della finestra e vide un pazzo, un mentecatto, un deviato. Un tipo siffatto il conte di Faberbleu l'avrebbe affidato alle cure delle suore. Se fosse stato un suo parente, forse, l'avrebbe tenuto nascosto dalla società, fatto credere malato, o a corte, o entrambi.
Comprese, e si accasciò sul divano.



"La servitù ti ha trovato svenuto, papa". La voce maschile gli era sconosciuta. Jacques doveva passare nel pomeriggio. Era pomeriggio?
"Oggi cerchiamo moglie, una degna contessa di Faberbleu." Pensò di non essere nelle condizioni di sposarsi. A meno che lui non fosse stato dichiarato pazzo, e rinchiuso, e che ora a fregiarsi del titolo fosse il figlio. Che però aveva seppellito. Cercò di aprire gli occhi, abbagliato dalla luce. Non riconosceva la voce, né l'accento, forse era stata la guerra a cambiare suo figlio, forse c'era stato un errore, dopotutto non aveva voluto vedere i resti, forse gli avevano restituito un ragazzo che non era il suo. Forse c'era speranza.
"Una dama di corte, magari. Verrà in visita qui, mi dicono meraviglie di lei. E noi non vogliamo che la damina si spaventi perchè tu smani, e sbatti la testa contro il muro come la scorsa volta, vero?" La testa doleva, ecco, la testa... Il tono del giovane uomo era viscido, e quasi cattivo. "O forse, la sbatterai tanto bene e tanto a lungo da farci il favore di tirare le cuoia. Hai resistito più a lungo di quanto avrei mai pensato. Un anno, dannazione! Che guerriero! Dovevi andarci tu nelle Americhe, invece che quella mammola di tuo figlio. Se avesse preso da te, ora quella mano gli starebbe ancora attaccata al corpo, e sarebbe tornato per stringerla con l'altra attorno a quel tuo collo di cappone come aveva sempre desiderato. Ma Jacques non può, Jacques ha paura.Tuo figlio è nato codardo, altro che eroe della guerra." Le cortine si scostarono, e gli occhi del conte faticarono nell'abituarsi alla luce. Jacques, o forse non era lui, anche se gli assomigliava come una goccia d'acqua nella statura e nel portamento, era di spalle e armeggiava chino sotto la ribalta dello scrittoio.
Estrasse un piccolo bauletto borchiato e lo aprì. Ne trasse una boccetta di vetro verde che ripose nella tasca, e sacchetto di cuoio leggero, da cui spuntava un dito mummificato con un anello: fu lanciato addosso all'anziano conte, che non tentò nemmeno di ritrarsi. Ora sì, aveva davvero capito. L'orrore della vicenda non lo toccava più. Egli aveva capito. La mente era chiara, limpida. I pensieri scorrevano, era in uno stato di grazia. Felice. Non sarebbe sorto il giorno che l'avrebbe visto pazzo. Mai!
Il nuovo conte di Faberbleu si tolse la parrucca e si sedette sul letto. "Bevi, vecchio, è l'ultima. Un anno che aspetto la tua rendita. Cerca di non svegliarti, stavolta."
L'anziano conte Faberbleu si sedette sul letto come potè, a forza di moncherini, aprì la bocca e inghiottì il liquido amaro che gli veniva colato in gola. Trasse due respiri profondi, i penultimi. Nel più profondo, che fu l'ultimo, pronunciò due parole, secche e taglienti, sputate fra di mezzo ai denti. "Des Italiennes".

domenica 3 luglio 2011

Era da molto tempo che ospiti non si trattenevano nella tenuta Faberbleu, ed il nuovo arrivato dovette penare parecchio prima di ottenere dai padroni di casa e dalla servitù la rassicurazione che non si sarebbero mutate le abitudini quotidiane in forza del nuovo arrivato. Al "signor Vanzetti" piaceva esser trattato come un gradito ospite  di passaggio, non amava esser considerato un ingombro da accudire compulsivamente. Anche perchè di ingombrante era già la sua posizione, nei confronti di due genitori, che in fin dei conti avevano perduto un figlio a causa sua. La tenuta per tutto il giorno fu un via vai di illustri notabili che elessero inconsapevolmente ma quasi di comune accordo un'identico comportamento, dissimile solo tra i due sessi, d'un garbo gli uomini ed d'altro le donne: dei primi -pingui cinquantenni imparruccati- certamente nessuno di essi si sarebbe realmente sognato di imbarcarsi su una nave per le terre d'oltremare a vendicare la morte del giovane risoluto, coraggioso e volitivo; eppure a passo lento e con fare contenuto e altero,  parevano tradire una maestosa volontà di vendetta beffardamente frustrata dalla sorte. Non erano solo le loro stesse mogli a diffidare di questa pubblica condotta virile, e quanto a queste ultime, tutte allo stesso modo si percuotevano il petto gareggiando in disperazione e inscenando il collaudatissimo e compassato actus tragicus per manifestare la sincera vicinanza per la perdita del caro estinto. Per alcune -e neppur tra le più giovani, ci permettiamo di osservare- la perdita fu assai sentita, dato che il giovane era proprio un bel vedere; tuttavia mai pensieri sconvenienti adombrarono le candide ed immacolate coscienze, fresche quel sabato d'autunno dei lavacri Romani d'anima e corpo.

La porta si aperse di scatto e la sala in penombra fu illuminata a giorno dai finestroni dell'anticamera spalancati. Il conte sollevò lo sguardo e la servitù annunciò la presenza del "Signor Vanzetti" desideroso di aver con il conte un colloquio privato. In sommo spregio alla condotta che si sarebbe dovuta ritener propria l'italiano spinse da un lato il lacchè e con una risatina di imbarazzo varcò la soglia a passi larghi.
Il conte strabuzzò gli occhi e svenne subito dopo: ma non prima che il signor Vanzetti traesse dalla sacca di cuoio che portava con se una mano d'uomo perfettamente conservata, che recava nel dito mignolo l'anello di suo figlio. E una boccetta verde, colma d'un liquido scuro.

giovedì 24 febbraio 2011

Il tumulto non cessò quando l'uomo si riebbe, anzi, se possibile si accrebbe ancor più.
Si dovette fronteggiare il mancamento della Contessa, seguito a breve da quello della Contessina, che furono portate a forza di braccia nelle proprie stanze, lontane dal feretro indrappellato e dal destino doloroso che portava.
La servitù fu licenziata con un gesto della mano, fiacco. Rimasero nella corte un uomo disfatto dalla stanchezza, cui misericordiosamente era stato offerto un bicchiere di liquore, ed un Conte stanco della vita, che in quel momento gli doveva sembrare troppo avara.
"Il Signor Conte mi perdonerà l'ardire di parlare per primo": fu interrotto. Quello che non poterono i tratti, sfigurati dalla lunghezza del viaggio, dal sole e dalla salsedine sull'Oceano e dalla polvere delle strade di Francia, persi in un intrico di cicatrici già bianche e antiche seppur nuove, poté la voce. "Baptiste" scandì lento il Conte "il mio ragazzo almeno..." e s'interruppe da sé, sfinito.
"Signor Conte, con il Loro Permesso..." "Almeno, ditemi, Baptiste, almeno è stato degno del nome che porta? E' con onore che è ...è..." Vinto dallo sforzo, crollò il capo e non trattenne i singhiozzi: gli riuscì di dominarsi il tanto necessario ad impedire alle ginocchia di cedere.
Quando Baptiste offrì il conforto della sua mano ruvida, però, i singulti cessarono d'un tratto.
Con uno sguardo indicibilmente tagliente, il Conte sibilò tra i denti "Contegno, servitù!". Si ritrasse. Baptiste aveva già visto quegli stessi occhi stretti, quello stesso tremito della mandibola contratta, la rigidità del corpo poco più di un anno prima, quando aveva assistito ad un commiato in quello stesso cortile, caricando i bagagli di un giovane cui non pareva vero poter finalmente lasciare il nido e vivere la propria avventura, che peccava solo di mostrare il proprio entusiasmo e la propria riconoscenza a quel padre che l'aveva permesso. Chissà, forse anche il proprio affetto. Ed era stato respinto con durezza, con brevi parole cavate tra denti stretti, e tutte riguardo l'onore e il buon nome della famiglia. Forse non immaginava che sarebbe stata l'ultima occasione. Quel ragazzetto avrebbe potuto essere suo figlio, e con quest'animo si era proposto di svolgere l'incarico di seguirlo e servirlo sulla via delle colonie d'America, sulla via di un destino che si era rivelato drammaticamente diverso da ogni sogno. Scrollò il capo per cacciare via i ricordi: appartenevano ad un passato così prossimo, eppure così terribilmente remoto, che la sproporzione gli dava alla testa.

"Un incidente, Illustrissimo. " Il Conte avvampò al punto tale che la cipria candida non riusciva a nascondere il colorito paonazzo del volto. "Incidente di che genere? Quanta onta?"
Venne dall'interno della carrozza un tramestìo di oggetti mossi. Baptiste, confuso, cercava parole che non vennero, e si ritirò di qualche passo, in imbarazzo, schiacciando il tricorno ormai logoro sul petto.
La porta della carrozza si aprì.

Due lacchè, dall'aria meglio in arnese del vecchio maggiordomo dei Conti Faberbleu, discesero trasportando un bauletto borchiato, che sembrava molto pesante. Furono seguiti da scarpini ottimamente calzati, che scostarono appena la tenda di velluto scuro che oscurava i vetri e proteggeva l'intimità del viaggiatore.
Alla finestra del piano superiore, Mademoiselle Francoise osservava, senza capir molto della scena, un ragazzo che qualche anno prima si sarebbe potuto dire poco più che ragazzino scendere con incedere solenne dal predellino. Impiegò qualche momento a comprendere che la sua speranza di veder comparire il fratello era vana, ma la curiosità la mantenne vigile e le impedì di cedere alla delusione e perdere ancora i sensi.
Il giovane si scappellò con un gesto ampio, e quando arrivò al fondo di un profondissimo inchino disse a voce alta, e chiara: "Illustrissima Eccellenza Signor il Conte". L'Illustrissimo contrasse il volto in una smorfia, e commentò a mezza voce  con un "des italiennes!" che espresse efficacemente tutto il suo disappunto.
"Con la Loro licenza mi dichiaro responsabile dell'incidente d'artiglieria che ha Loro sottratto la luce della discendenza, e mi metto al Loro servizio, offrendo la mia persona o la mia vita come compensazione, per quanto miserrima, della Loro perdita". Tutto fu detto con lentezza grave, al fondo dell'inchino, e ne seguì un silenzio che durò molto a lungo. Il giovane inclinò appena la testa per occhieggiare l'eccellenza illustrissima a cui si era rivolto, ma la cima della scalinata era deserta. Si rialzò, ricomponendosi, e incontrò lo sguardo timido di una ragazza, coi capelli un po' scomposti, che si nascose dietro la tenda non appena si avvide d'essere guardata.

"Fate portare il bagaglio, Eccellenza" fece Baptiste, rassegnato "Non c'è molto altro da fare".


Il Maestro di Casa aveva alla fine trovato il Conte, che sedeva rigido su una savonarola, davanti ad un secretaire ingombro di carte. "Volete vedere vostro figlio, Eccellenza?"
Il Signor Conte lo guardò come se avesse parlato una lingua sconosciuta, e poi come se avesse detto la peggiore delle eresie, degna della tortura e poi del rogo.
"Un prete, Eleuthere. Un prete per le esequie." Il Maestro di Casa con un breve inchino uscì dalla stanza, e non appena la maniglia si risollevò, il vecchio conte strappò la parrucca dalla testa con un lamento, e la gettò al fuoco del camino. Poi crollò sullo scrittoio, e pianse.

domenica 9 gennaio 2011

Mademoiselle de Faberbleu non capiva proprio come mai quell'unico fratello che aveva la considerasse così poco. Lei sognatrice,amante degli scherzi e delle cacce al tesoro organizzate,della musica e della pittura -nella quale con impegno si cimentava ma senza gran risultati- non riusciva agli occhi del fratello a trovar un minimo d'attenzione,d'ascolto e delle volte di rispetto. I genitori avevano sempre preferito lui per il suo fare impulsivo, per il carattere forte e volitivo, mentre di lei -che era più a lungo rimasta in casa con i genitori- poco o nulla si curavano se non per questioni vacua di rilevanza sociale: Ah!cosa si sarebbe detto in giro -per tacere delle malelingue di corte- se Mademoiselle Françoise de Faberbleu fosse stata vista in fogge indegne del suo rinomato rango, se Mademoiselle Françoise de Faberbleu non sapesse toccare alla spinetta come le cortigiane della regina, cosa si sarebbe detto se..
La ragazza era di carattere allegro e sensibile, dava fiducia a tutti e di quel fratello gelido pareva esser l'unica a non subirne gli influssi. Quando il messo che da tempo si aspettava arrivò e dopo qualche giorno il fratello partì, lei pianse sinceramente e fu redarguita dai genitori perchè nel farlo si soffiò il naso forte assai sul fazzoletto ricamato della povera prozia dama di corte.
Passò circa un anno, e le notizie dal fratello arrivavano poche e sconnesse. La guerra nelle Americhe stava andando male per la Francia e i condottieri di ventura richiamati alle armi avevano degli obblighi ben precisi nei confronti della corona. Il vecchio conte e la contessa de Faberbleu attendevano ansiosi notizie dal fronte ogni giorno, fino a quando un mattino una carrozza si fermò davanti al cancello della tenuta. Dietro veniva un feretro nero, una bandiera listata a lutto ed un uomo solo. A piedi.
L'uomo guardò i conti immobili sulla scalinata, sorrise un poco e poi svenne sul patio.

mercoledì 5 gennaio 2011

Da molti giorni, oramai, cielo e terra parevano confusi. Non c'era più alto e basso, sopra e sotto. Una cappa di nuvole grigie e pesanti sembrava essersi accomodata tra le montagne e aver definitivamente rinunciato ad ogni desiderio di spostarsi altrove, o anche solo di far piovere. Il lago aveva smarrito le rive in una foschia densa e lattiginosa che andava a mischiarsi alle sfilacciature delle nubi più basse, e stendeva le sue acque metalliche come uno specchio cieco per un cielo immobile. La nebbia affievoliva ogni rumore, inghiottiva le distanze, confondeva le profondità. I merli tacevano, e si muovevano tra i rami con timidezza; un airone scrutava un orizzonte inesistente, immobile con una sola zampa immersa nelle acque fangose della riva, un pettirosso frullava le ali da un ramo all'altro di un salice, senza che il suo peso muovesse anche una sola foglia. "Diventerò matto" pensava stretto nel frac di gabardina bordeaux, infossando quanto più possibile il naso nella sciarpa di lana per difendersi dal primo freddo "ancora un giorno così e diventerò matto". In lontananza, o così almeno pareva, qualcuno tormentava orribilmente una spinetta, mentre fiocchi di cenere di legna, faville spente, venivano trasportate per l'aria ferma da qualche corrente troppo lieve per essere avvertita. Il pensiero davanti al lago morto, col suo coperchio di nubi fuligginose, sempre più affondato in una bruma densa come fumo di legno verde, era sempre il medesimo "...un giorno così ancora...", e i giorni erano passati, si era quasi fatto un mese, e contrariamente alle proprie previsioni, non era ancora diventato matto.
"Se passi un altro giorno fuori con questo tempaccio, ti prenderai una grippe, te lo dico io" La vocina flautata e sussiegosa era stata annunciata da uno scalpiccio di pantofoline e da un respiro affannato, che era però passato del tutto inosservato: infatti sussultò, infossando ancor più il viso nella sciarpa, come inconscia difesa. Se non era ancora matto, non avrebbe nemmeno preso la grippe. "Ti è piaciuto?" la frase fu sospesa, in attesa di un complimento che non arrivò "a me affatto no. Troppo difficile." Ecco chi torturava la spinetta. "e poi conosci maman, ha una vera fissazione di queste cose moderne. Tutto à la page. Come sto?" La cappa si abbassò scoprendo un'improbabile torre di riccioli, da cui promanava, nonostante chissà quale impiastro profumato, un vago sentore di strinato a denunciare un colpevole eccesso di zelo. " Sempre maman. E' a la mode, così pare."
Non sapeva proprio come togliersela d'impiccio.
"Credo che partirai." Il tono della voce cambiò repentinamente, ora era serio, con un accenno di tristezza. "Monsieur le pére ha arrangiato tutto. Credo che sia per domani." E, giusto all'ultima sillaba, due lacrimette lasciarono una traccia rosea nella cipria. "Strano, sorella, che con tutta quest'arte d'essere sentimentale e con l'educazione a la mode di maman, non vi sia ancora riuscito di accalappiare un buon marito che resista al vostro modo di suonare e alle vostre acconciature. Ma siete giovane, vi mancano ancora un paio d'anni buoni prima d'essere considerata zitella." Si girò sui tacchi e la lasciò lì, evidentemente stupefatta, al bordo del lago.
Era felice. Il giorno che l'avrebbe reso matto non sarebbe sorto.

mercoledì 18 agosto 2010

Kas'iyyan guardò di nuovo il soldato sulla porta. Era alto,il fisico secco ma atletico,con le labbra sottili,gli occhi spietati e freddi ed i capelli biondi molto corti.
-"Arrenditi ." disse il soldato piano,con voce metallica e crudele.
Il vecchio allora si fermò,si fermò per una manciata di lunghissimi interminabili secondi;dopo abbandonò le braccia lungo i fianchi e chinò il capo. Sconfitto.
Il soldato alla porta prima rimase immobile,ma poi lentamente rilassò i muscoli. E sorrise trionfante.
Vedere come  ancora una volta il suo ordine fosse stato eseguito per paura,e la sconfitta fosse giunta dopo un attimo di terrore del suo nemico lo eccitò e lo rese euforico.Le sue labbra si incresparono in una posa diabolica e subito ripose la pistola d'ordinanza nella fondina,chiuse la porta alle spalle e si avvicinò al vecchio. Fece qualche passo nella sua direzione e si fermò a breve distanza da lui per scrutarlo meglio. Poteva sentirne il puzzo di latte acido,di grasso affumicato, di terra bagnata.
-"E così sei tu..dopo tanti anni ti abbiamo trovato. Il generale è fuori che aspetta impaziente con gli altri,ma prima volevo vederti personalmente,faccia a faccia.Ho sentito così tanto parlare di te che.."
La mano di Kas'iyyan fu così rapida da sembrare lenta.Il coltello che teneva sulla mano destra  disegnò un arco perfetto che carezzò l'aria tiepida dell'ambiente ed esattamente a metà della sua corsa incontrò la gola del soldato e la squarciò con uno scatto.
Kas'iyyan non permise che il corpo cadesse,ed anzi lo sostenne tra le sue braccia,dolcemente. Ma non per la paura che il rumore del corpo cadente insospettisse gli "ospiti che aspettavano fuori",ma per accellerare il deflusso del sangue che dal cervello lungo le carotidi recise ruscellava rutilante sul pavimento. E facendolo fissò il morente negli occhi,guardando in viso la vita che scorreva via.
Adagiò il corpo sul tavolo,si diresse calmo verso la porta. Guardò l'icona un ultima volta,le scarpine di Vladilena posate accanto alla finestra e poi uscì. Aprì la porta,i soldati lo guardarono lordo di sangue e il generale che era con loro senza una parola gli sparò al petto. Gli altri soldati aprirono il fuoco crivelladolo di colpi per scaricare la tensione accumulata dall'attesa. Poi le armi fumanti tacquero,l'erba coperta di bossoli fu calpestata dai passi di coloro che caricarono sulla camionetta il corpo del vecchio e del soldato sgozzato dentro l'isba,e tutti si allontanarono. Il bosco poco vicino alzava il suo canto funebre,il sole calava pallido e lontano.

Così trapassò l'eroe di guerra pluridecorato Andrei Nikolaevich Kas'iyyan Taz'ghul,il cui nome originario,prima che quel ragazzino armeno fosse adottato a braccia aperte dalla Grande Madre Russia era Haig Kaciac Taz'ghul,"Colui dalla destra coraggiosa". Rapito a sette anni da briganti-cacciatori-contrabbandieri della sua regione,fu allevato per anni con una disciplina di ferro,strappato alla sua casa e ai suoi fratelli per farne un vero guerrigliero armeno. Iniziò a far da vedetta alle bande che si vendicavano sui convogli turchi per le attenzioni che Ankara aveva loro usato negli anni passati,si spostavano lungo il confine con la Russia,dove trovavano riparo dalle baionette dei Genç Türk. Poi un giorno durante un esercitazione sparò ad un cespuglio che si muoveva nel bosco e uccise uno dei suoi fratelli,il minore,finito chissà perchè anche lui in quella zona,forse per fame o per cercar fortuna lungo il confine. Se ne accorse solo a fine esercitazione,e fino alla fine dei suoi giorni quel ricordo lo accompagnò. Giunta la guerra si arruolò,amo teneramente una ragazza conosciuta in un ricovero in ospedale,ma al termine della convalescenza il rifiuto di lei di condividere l'amore di quello strano ragazzo dall'accento lontano lo gettò in un mutismo dal quale si riscosse soltanto dopo un anno. Il ragazzo era diventato un uomo,batteva la zona di confine alla quale era stato assegnato con una ferocia inusitata,si divertiva ad attirare gli abbandonati della Wehrmacht in trappole per poi annientarli come conigli. Il suo cuore si indurì e si faceva chiamare Hrant  "Li-c'è-il-fuoco" nella sua lingua. Fu assegnato a Stalingrado ben prima della battaglia che sarebbe poi diventata la più cruda di tutto il fronte occidentale,li incontrò di nuovo la ragazza che aveva amato,ma lei si era innamorata del nemico,un tedesco dell'armata degli invasori,con quale ormai aveva già una figlia. I due amanti morirono,nessuno sa come,ma la sua rabbia non si placò. Fu congedato dall'esercito per "grave labilità emotiva", e nonostante la fine della guerra si mise alla ricerca del frutto dell'amore tra il nemico e la giovane volontaria,che tanti anni prima lui aveva amato. Li trovò quando lei stava per dare alla luce una bimba,sposata al figlio di un generale. Fece finta di interessarsi a loro,incontrò il padre di lui e promise assistenza ai due giovani durante le campagne militari in Asia che avrebbero tenuto il futuro nonno lontano. Ma non appena quest'ultimo partì ad addestrare truppe il quel paese di confine non perse tempo,produsse false accuse di tradimento contro la coppia e li fece internare nei campi di lavoro,dove si assicurò che morissero prima della fine dell'inverno. La ragazza aveva dato alla luce una bimba,che fu chiamata Vladilena. Kas'iyyan riuscì nell'ottenere l'affido spacciandosi come nonno della piccola e letteralmente scomparì, in un villaggio sperduto,vicino a un bosco sperduto della provincia di Komi.

Qualcosa cambiò in lui con quella bimba tra le mani,una creatura innocente ed indifesa.No,a lei non sarebbe capitato ciò che era successo a lui e a suo fratello. Kas'iyyan amava quella bimba,più di se stesso.
Li viveva con lei poco fuori dal villaggio fino a quando il generale Semën Konstantinovič Timošenko,di ritorno dalla Cina non vendicò suo figlio.

"Babuška Maša!". Vladilena svegliò la vecchia che sonnecchiava davanti al camino in quel pomeriggio freddo dopo il pranzo per il suo ventiduesimo compleanno. Il nonno Semen e gli zii avevano pensato a tutto facendole una splendida sorpresa,incluso un pranzo pantagruelico cui la vecchia non aveva saputo sottrarsi:  nascere e crescere in un villaggio sperduto nel bosco ti lascia addosso una fame atavica,impossibile da eradicare,anche dopo anni di vita agiata nel raion più confortevole di Mosca-secondo le teorizzazioni del beneamato Nikolaj Miljutin-servita e riverita in quanto balia della nipote di un generale.
"Babuška Maša!,è arrivata una lettera per te!"
La vecchia aprì un occhio per volta,poi entrambi insieme,poi li richiuse e fece per dire qualcosa,ma un sonoro gorgoglio della sua stessa pancia la interruppe.
Il pollo.
Ma fu un attimo,la vecchia subito scattò seduta:-"Che vai blaterando figlia mia??Una lettera per me?Ma se non ricevo lettere da quando Piòtr partì in città per cercar fortuna?La lettera non la scrisse certo lui,che era tonto come una ruota,ma la padrona della bettola dove la sera diceva di sedersi a pensare a me!Se mi avesse pensato di più non avrebbe speso tutti quei rubli in voodka e...e non farmi dire cosa!Ho dovuto saldare tutti i suoi debiti,che San Michele lo perseguiti fino all'eternità!"
Ma la lettera c'era,con una grafia tremolante l'indirizzo era scritto in china blu,molto sbiadita,pareva esser stata sotto la pioggia per dei giorni,ma la carta aveva resistito e l'interno della busta era intatto. Era pesante,come se ci fossero monete dentro,ma quando Mariya Alexandreevna la aprì tintinnarono sul tavolo scintillando due vecchie medaglie militari con il simbolo di un nemico che fu.

" Mi è stato riferito dalla gente di un villaggio sul Komi che vi siete trasferita qui a Mosca. So che con voi rimane una bimba nipote di un grande generale. Affido a voi questa lettera per lei,che non ho potuto indirizzare all'interessata per non mettere in sconvenienza la signorina che si vede destinare attenzioni da parte di uno sconosciuto.Sono inoltre ricercato,lo dico per potervi regolare voi di conseguenza. Quanto a me, morirò ben prima che riceviate questa lettera.

Nostro Padre,tuo bisnonno non aveva che noi due. Me e Friedrich. Io ero il maggiore tra i due,ricordo ancora la mamma che morì nel dare alla luce Friedrich,e il lungo funerale che seguì,con parenti venuti da lontano,la zia nel suo scialle nero e i nostri cugini,segnati a lutto. Nostro padre,il conte Hohenzollern-Sigmaringen ci amava tanto,siete i miei occhi figli miei,non faceva che ripetere a tutti.
Fu lui ad insegnarci a sparare,fin da quando eravamo piccoli. Militai fin da subito con i miei coetanei entusiasti in quella che doveva essere l'alba di una nuova rinascita e proteggevo mio fratello così come a Nostro Padre avevo promesso. Presi i voti migliori per lui,e mio fratello-tuo nonno-mi sceglieva sempre come esempio.
Andai alla Braunschweig e vi trascorsi il mio anno.Fui uno dei primi,anche perchè ero tra i più anziani,a 31 anni ero già nei reparti d'assalto. Tuo nonno aveva quattro anni in meno di me,e in segreto dietro mio consiglio entrò nella Wehrmacht,non nelle SS.
Fui io quindi in un certo senso che lo mandai a morire a Stalingrado con von Paulus. Ma lui era contento di partire,la 6° armata era un corpo d'elite,e questo anche a Nostro Padre piaceva. Friedrich d'altronde era felice di andare in Russia,la sua idea era di riincontrare una ragazza che aveva conosciuto anni prima quando accompagnando il Fuhrer era stato ricoverato in un ospedale da campo per una caduta da cavallo. Si scrivevano ogni settimana e la sua idea era di tornare in Russia,anche con la guerra in atto,per incontrarla e a guerra vinta portarla in Germania come sposa.
Io ero già un veterano. Quando Nostro Padre malato seppe come si moriva a Stalingrado mi guardò ed io capii. Morì qualche giorno dopo ed io raggiunsi il fronte in treno,le giovani reclute dirette al fronte  mi guardavano tanto con rispetto quanto io guardavo loro con disperazione, perchè non sapevano a cosa andavano incontro. Dovevo trovare Fredrich laggiù a Stalingrado e riportarlo indietro da quella follia. Quando lo trovai,era troppo tardi. Ma vidi bene in viso l'uomo che rideva di lui,schiacciato sotto le macerie,vidi per la prima volta la bellissima donna che amava,vidi la sua morte. Dovevo vendicarli ma riuscii soltanto a ferire quel serpente,poi un colpo di cannone fece franare il palazzo dove ero appostato. Quando rinvenni feci in tempo a salvare poche cose di mio fratello e poi fui catturato. Mi misi le sue medaglie in bocca e non parlai per mesi;a Stalingrado prigioniero vidi le nostre armate disfatte e umiliate,abbandonate dalla loro stessa nazione che li aveva spediti lontano in un rigurgito convulso di sorda barbarie mista a orrore. Da li in treno fino a Novaja Zemlja: la nuova terra.
Riuscii a fuggire solo dopo dieci anni,e tutti dicevano che fosse un miracolo che fossi riuscito a soppravvivere. La sete di vendetta per quell'uomo che ero solo riuscito a ferire mi diede un motivo per voler vivere la dove tanti erano i motivi per voler morire.
Ricordo il silenzio della tundra,il vento sulla slitta dei contrabbandieri che ero riuscito a corrompere, le zanzare e la fame nella taigà ed il terrore ai posti di controllo per passare da una città all'altra nascosto tra le carcasse di renna. Ho visto il rifiorire impetuoso della vita dopo la morte più definitiva che ci sia,il morire soli. Ho ascoltato i lamenti del bue muschiato quando vengono al mondo i piccoli e la foca che lecca il sangue dei suoi figli uccisi a bastonate.
Ho visto morire tuo padre,prima tuo nonno e prima ancora tuo bisnonno.
Non ti ho visto nascere ne forse mai ti vedrò,mi restano così pochi giorni da vivere e queste ultime forze voglio usarle per raccontarti la verità sulla tua vita. Ti ho trovata grazie ad un postino chiacchierone che racconta di una brutta storia,ubriaco in una taverna a parlare di un uomo che ho cercato per anni per vederlo morire. Quando in realtà avrei fatto meglio a cercare te per vederti vivere."