martedì 3 luglio 2012


C'erano voci fuori dalla stanza. Le cortine pesanti del baldacchino erano tirate, filtrando la luce in lame polverose e ovattando i rumori, tramutando la vita che scorreva fuori in un tramestio confuso. Le voci non furono la prima cosa che avvertì il conte, nè il capo che pulsava ritmico dietro la tempia destra -doveva essere caduto, pensò, aver picchiato la testa contro qualcosa, accidentalmente, ma cosa, cosa...- quanto un'insistente fastidio, un morso profondo e minuscolo dove la camicia da notte si apriva disordinatamente sulla spalla. Pulci. Le solite pulci. Da quanto tempo giacesse lì, non avrebbe saputo dirlo. Un'ora, forse, pensò, dal momento che non si sentiva affatto riposato, oppure molto di più, credette, quando s'accorse che i muscoli impiegarono più del normale ad obbedire alla sua volontà di alzarsi. Poi la vescica implorò d'essere svuotata, e tentò di rotolare a sinistra, di scostare le tende di mussola, poi di velluto, raggiungere l'orinale. Si smarrì nei tessuti, sembravano tanti, troppi, per ogni velo scostato dieci nuovi comparivano. Quando finalmente riuscì nell'impresa, le mani incontrarono un muro. Incredulo, ne seguì tentoni la superficie lunga e fredda, e fu preso da un panico folle, disorientato. Cercò di chiamare ad urla la servitù, ma dalla sua gola non uscì un suono.
Il vociare si fece più vicino, la cortina si spalancò e il conte serrò gli occhi, convinto che la luce l'avrebbe ferito, ma la stanza fuori era tenuta in una condizione di compassionevole penombra. Dove poco prima stava il muro, riconobbe stagliarsi la figura una delle servette di camera, che senza fiatare lasciò cadere il lembo del baldacchino soffocando una parola, un grido, un'imprecazione premendo le mani sulle labbra, passi di corsa e una porta che si chiudeva con rumore pesante.
Il conte si allungò disperato per trattenerla, e oltre i velluti e le mussole la sua mano incontrò ancora il muro, solido, reale, terribile. Liberò la vescica senza avvedersene, ma fu un momento. Allucinazioni, si disse. Mostri dell'immaginazione, nient'altro. Nulla di reale. Si girò rotolando dall'altro lato, impacciato dalle lenzuola e dalla camicia bagnata. Grugnì la sua fatica nel mettersi a sedere, cercò il vuoto sul bordo del letto con i piedi e lo incontrò. Si spinse oltre, sempre più oltre, finchè i piedi incontrarono il pavimento in una lama di chiarore, all'incontro delle cortine, e lo tastarono con dita sospettose, poi con tutta la pianta. Le allucinazioni erano finite. Sollevato, si sporse col capo fuori dal baldacchino e ritrovò l'orientamento, la sua stanza da letto, lo scrittoio, il camino sul fondo.
Allungò una mano verso il comodino, cercando la campanella per chiamare la servitù, ma non gli riuscì d'afferrarla ed essa cadde, tintinnando sul pavimento. La porta si spalancò ed entrò la luce forte e chiara di certe mattine limpide di primavera, con un refolo d'aria fresca. Che non fu sufficiente a portargli sollievo quando, nel chiarore, vide che ad entrambe le mani mancavano tutte e dieci le dita. Volle urlare, ma non emise un suono. Si dimenò, smaniò, ma l'allucinazione non passava. Non trovava le proprie dita, non trovava la propria voce. Gente della servitù, che riconobbe per gli abiti più che per le fattezze, cercarono di trattenerlo, di calmarlo. Ebbero ragione di lui solo quando gli porsero da bere, e lui bevve, avidamente.
Ma nemmeno l'acqua lungo la gola riarsa gli restituì la parola. Nessuna allucinazione. Era senza dita, ed era muto.

Vennero in molti, visi estranei sotto le parrucche incipriate. Lo condussero alla poltrona davanti alla specchiera, ma gli furono attorno in così gran numero che non gli riuscì di vedere il proprio riflesso.
Gli strigliarono il capo con una spazzola che voleva essere morbida, gli cambiarono la camicia e lo frizionarono con panni profumati di muschio, lo aiutarono a indossare le calze e poi le brache, conducendo i moncherini a farsi strada nel gilè e nella marsina. Gli calzarono una parrucca nuova -dov'era la sua?- e gli incollarono un neo in taffetà sulla fronte, "il maestoso". Poi si dileguarono, silenziosi com'erano venuti, lasciandolo lì seduto, senza nemmeno un paio di babbucce da camera ai piedi, a guardare nel vetro piombato la faccia stravolta di un uomo che gli parve di non conoscere.
Lo specchio veneziano lo ricordava, già antico quando gli fu porto come dono di nozze da un parente, forse un marchese. Era proprio lì, con tutte le incrinature del tempo e la doratura della pesante cornice che in un ricciolo iniziava a staccarsi in fiocchi, esattamente dove doveva essere. O forse no. Lo scrittoio, pensò improvvisamente, lo scrittoio è troppo distante. Uno o due piedi, forse. Improvvisamente gli parve tutto grottescamente fuori posto. Si riprese dallo stupore e si alzò in piedi, brancolando incerto verso la scrivania, avvertendo un bizzarro senso di vertigine quando gli necessitarono gli ultimi due passi per raggiungere il tavolo. Erano passi di troppo. E la superficie del tavolo, sempre ingombra di carte, missive e documenti, che seppellivano il tocchetto di ceralacca sciolto a metà e che non gli riusciva mai di trovare, gli sembrava estranea, così terribilmente nuda. C'era penna e calamaio, e una pila di fogli scorniciati di fresco, ma quando allungò una mano per afferrarli e l'altra per scostare la sedia, realizzò che non gli sarebbe mai stato possibile vergare nemmeno una cifra. Le parole che non volevano uscire dalla strozza e le dita mozze, doppiamente muto. Alzò il capo inspirando profondamente, cercando di dominare il terrore. La sua vista incontrò troppo presto il muro di fondo, un muro bianco, liscio. Ne sentì il freddo sul palmo, realizzando che, su uno dei due lati, il suo letto vi poggiava contro.
Alle sue spalle si aprì una porta, e si voltò di scatto, stravolto.
"Papa, mon papa, vi sta scivolando la parrucca. Ecco, lasciate che l'aggiusti." Sembrava Françoise. Le assomigliava, dopotutto, ma non si era mai presa tanta confidenza nei suoi confronti. Non l'aveva nemmeno mai preso sottobraccio, come ora stava facendo, mentre lo conduceva a sedere sul canapè sotto la finestra. Forse era tenerezza per la sua condizione, una cura per un vecchio padre malato.
"Da quando maman è mancata, quanto dev'essere stato difficile per voi." Mancata? Georgette. Mancata mentre Jacques era in guerra. Jacques però non era più nelle Americhe. Era morto. Per colpa di un italiano pazzo, o cronicamente ubriaco, che sedeva nella sua casa e lo oltraggiava, sì, lo oltraggiava...ma come? come? "Avete dormito a lungo, questa volta, papa, eravamo tutti terribilmente preoccupati." Tutti... " Io ero preoccupata che non vedeste mai il vostro primo nipote". Abbassò gli occhi arrossendo. Lui avvampò per la vergogna e il disonore. Des Italiennes. Buoni solo a portare guai. Poi vide l'anello, grande, ingombrante, all'anulare di lei, e lo fissò stupefatto. 
Françoise se ne avvide, e sembrò seccata. "Papa. Ancora non ricordate? Sono sposata, ora. Ho un buon marito, è gentile, si occupa di me anche se è lontano. Un commilitone di Jacques.".
Il conte ne fu immensamente sollevato, e sospirò il suo sollievo. " Ha fatto una piccola fortuna nelle Americhe del Nord, oltre i grandi laghi. Dice che quando il bambino sarà abbastanza grande, mi porterà lì con sè, ma laggiù il clima non è adatto ad una donna... ecco, una donna nel mio stato". Arrossì ancora. Le buone maniere, l'etichetta, la pittura e la spinetta malamente strimpellata per anno, e la sua 
Françoise alla fine aveva accalappiato qualcuno. "Ti porterò un suo ritratto. E' talmente bello, vedessi, anche con quella cicatrice che gli attraversa il viso. Peccato per quella mano, un brutto incidente, ma è la sinistra e non la usa per scrivere, quasi una fortuna. Vedi, ti somiglia" Quelle parole gli fecero montare una nausea insopprimibile. La represse a fatica. Ricordò suo figlio, il giorno in cui partì per le Americhe, quando infilò l'anello di famiglia al mignolo, rigirandolo più e più volte. Aveva un'aria mogia, e insicura, come un bambino appena sgridato. Il conte si sentiva terribilmente colpevole, ma non ricordava per cosa. Il cinguettare della figlia lo riportò al canapè quando ormai aveva perso il filo della conversazione, ma quello che colse fu più che sufficiente: "Jacques verrà nel pomeriggio." La giovane scalpicciò via, senza voltarsi.
Jacques era morto. Un italiano era arrivato con una carrozza funebre e aveva parlato di incidenti, poi si era parlato di funerali, poi...poi... Jacques era morto. Morto. Si era strappato la parrucca per lui. Ecco dov'era finita, nel camino, bruciata. La bara era stata sul catafalco della chiesa, annegata in un mare di gigli che lottava per coprirne l'odore, i seminaristi avevano cantato. L'interramento vicino alla cappella di famiglia, sul retro della villa, che si vedeva in lontananza, oltre la finestra.


Sul retro. I suoi appartamenti davano sul lago in fronte alla villa, sullo scalone d'onore.
Iniziò a farsi chiaro, nella sua mente. Quella stanza, ricreata ad arte per sembrare la sua, che però non lo era. Era più piccola, più buia e più allungata, il letto poggiava contro il muro e lo scrittoio era troppo distante.
Non aveva scarpe per uscire, né dita, né voce. Non poteva andarsene o comunicare, neppure porre domande. Non conosceva data né stagione. E il suo defunto figlio sarebbe passato nel pomeriggio. Sudava freddo, con la parrucca Si guardò nel riflesso della finestra e vide un pazzo, un mentecatto, un deviato. Un tipo siffatto il conte di Faberbleu l'avrebbe affidato alle cure delle suore. Se fosse stato un suo parente, forse, l'avrebbe tenuto nascosto dalla società, fatto credere malato, o a corte, o entrambi.
Comprese, e si accasciò sul divano.



"La servitù ti ha trovato svenuto, papa". La voce maschile gli era sconosciuta. Jacques doveva passare nel pomeriggio. Era pomeriggio?
"Oggi cerchiamo moglie, una degna contessa di Faberbleu." Pensò di non essere nelle condizioni di sposarsi. A meno che lui non fosse stato dichiarato pazzo, e rinchiuso, e che ora a fregiarsi del titolo fosse il figlio. Che però aveva seppellito. Cercò di aprire gli occhi, abbagliato dalla luce. Non riconosceva la voce, né l'accento, forse era stata la guerra a cambiare suo figlio, forse c'era stato un errore, dopotutto non aveva voluto vedere i resti, forse gli avevano restituito un ragazzo che non era il suo. Forse c'era speranza.
"Una dama di corte, magari. Verrà in visita qui, mi dicono meraviglie di lei. E noi non vogliamo che la damina si spaventi perchè tu smani, e sbatti la testa contro il muro come la scorsa volta, vero?" La testa doleva, ecco, la testa... Il tono del giovane uomo era viscido, e quasi cattivo. "O forse, la sbatterai tanto bene e tanto a lungo da farci il favore di tirare le cuoia. Hai resistito più a lungo di quanto avrei mai pensato. Un anno, dannazione! Che guerriero! Dovevi andarci tu nelle Americhe, invece che quella mammola di tuo figlio. Se avesse preso da te, ora quella mano gli starebbe ancora attaccata al corpo, e sarebbe tornato per stringerla con l'altra attorno a quel tuo collo di cappone come aveva sempre desiderato. Ma Jacques non può, Jacques ha paura.Tuo figlio è nato codardo, altro che eroe della guerra." Le cortine si scostarono, e gli occhi del conte faticarono nell'abituarsi alla luce. Jacques, o forse non era lui, anche se gli assomigliava come una goccia d'acqua nella statura e nel portamento, era di spalle e armeggiava chino sotto la ribalta dello scrittoio.
Estrasse un piccolo bauletto borchiato e lo aprì. Ne trasse una boccetta di vetro verde che ripose nella tasca, e sacchetto di cuoio leggero, da cui spuntava un dito mummificato con un anello: fu lanciato addosso all'anziano conte, che non tentò nemmeno di ritrarsi. Ora sì, aveva davvero capito. L'orrore della vicenda non lo toccava più. Egli aveva capito. La mente era chiara, limpida. I pensieri scorrevano, era in uno stato di grazia. Felice. Non sarebbe sorto il giorno che l'avrebbe visto pazzo. Mai!
Il nuovo conte di Faberbleu si tolse la parrucca e si sedette sul letto. "Bevi, vecchio, è l'ultima. Un anno che aspetto la tua rendita. Cerca di non svegliarti, stavolta."
L'anziano conte Faberbleu si sedette sul letto come potè, a forza di moncherini, aprì la bocca e inghiottì il liquido amaro che gli veniva colato in gola. Trasse due respiri profondi, i penultimi. Nel più profondo, che fu l'ultimo, pronunciò due parole, secche e taglienti, sputate fra di mezzo ai denti. "Des Italiennes".